IL RE SOLDATO

autore: 
Gabriele d’Annunzio

Nel 70° anniversario della morte di Gabriele d’Annunzio, riportiamo un suo scritto apparso sulla Rivista “Aprutium”, fascicolo speciale gennaio-giugno 1917, dedicato a Re Vittorio Emanuele III, il Re Soldato.

Quando alla fine della nostra “settimana di passione”, vinta l’aspra battaglia contro i trafficatori e i traditori, ebbi l’avviso che il Re mi avrebbe fatto l’onore di ricevermi, andai verso Villa Ada con uno spirito di giovinezza.
Mi s’illuminava nella memoria il lontanissimo giorno in cui per la prima volto lo vidi, Principe Ereditario, su un campo di manovre nella campagna di Bracciano bruciata dalla canicola e quasi ridivenuta vulcanica, quasi fatta di tufi roventi e di lave incandescenti nell’ora di mezzogiorno,come nelle origini quando il lago era un cratere aperto.

Prima che i miei occhi lo scoprissero nell’ombra del viale dove egli mi attendeva, io rividi nella mia memoria il suo sguardo acuto e azzurro che per la prima volta incontrandomi m’aveva esaminato da capo a piedi nella mia uniforme di cavalleggero d’Alessandria.

Egli era a cavallo, verso sera, con i suoi ufficiali, su una via che costeggiava il lago. Io, con un mio compagno avevo l’aria di tornare da una ricognizione delle forze e delle posizioni nemiche; ma in realtà tornavo dall’avere scoperto nella chiesa vecchia di Trevignano due quadri di scuola umbra, due quadri perugineschi, e dall’aver cercato nelle rovine del castello l’ombra di Cesare Borgia.

Il Principe Ereditario arrestò il suo cavallo; e, mentre noi eravamo davanti a lui diritti nella posizione dell’attenti, egli ci scrutò con un occhio militare, severo e minuzioso, dal berretto ai gambali. Eravamo in perfetta tenuta di ordinanza.
Allora, soltanto, riconoscendo in me il giovine
poeta delle Elegie romane, mi sorrise e mi fece un lieve cenno, con una così franca gentilezza italiana che mi sentii subito pel suo destino fiorir nel cuore una grande speranza. Poi lo vidi allontanare nella sera luminosa tra le grida delle rondini. E mi piacque di seguire con l’augurio quel giovine che doveva essere il futuro Re latino della più grande Italia, mi piacque di seguirlo verso l’orizzonte classico del sacro Lazio,dove s’inazzurravano il Soratte e i monti della Sabina e le vette del Cimino, mentre Anguillara e Trevignano s’oscurarono su i loro promontorii di lava basaltica.

Nei giorni seguenti ebbi la ventura di far da guida al suo reggimento durante le manovre; ebbi la ventura di cavalcare per qualche ora al suo fianco.E due cose più mi colpirono, mentre degnava parlare con me nella noia della lunga marcia: l’ordine della sua cultura e il suo gusto per gli aspetti della bellezza terrestre, la facoltà dell’azione e la facoltà della contemplazione.

L’una e l’altra io ritrovai in lui, nel mio recente colloquio, ma fatte più gravi e più profonde; e ritrovai quella gentilezza di pura qualità italiana, nel senso che davano alla parola i nostri padri del Trecento, quella gentilezza sobria e virile che gli suggerì l’atto di venirmi incontro fin quasi al cancello, non tanto per fare onore a me, umile servitore della Patria, ma per onorare in me “lo spirito che mi conduce, l’amore che mi possiede, l’idea che io servo”.

Arrivando in Roma, io m’ero gettato nella mischia senza badare ai colpi.Vi fu un momento in cui credemmo che fosse veramente per compiersi su la Patria l’orribile assassinio. E da quel momento combattemmo con una specie di furore disperato, senza badare ai colpi. Nelle mie parole e nei miei atti io rappresentavo il più crudo spirito di opposizione contro un uomo politico perniciosissimo, il quale tuttavia era stato Ministro del Re, insignito della più alta onorificenza regale. Il 14 maggio, nell’adunanza del popolo, io avevo accusato di alto tradimento quell’uomo, con una determinazione implacabile,
con una freddezza precisa, adducendo la prova dei fatti.Tutto il popolo aveva risposto con un grido di morte.

Questo sapeva il Re che mi veniva incontro pel viale ombrato.E, tendendomi la mano, egli tendeva la mano al buon combattente, egli accoglieva il messaggio del popolo di Roma; con un gesto di nobile franchezza egli dichiarava da qual parte fosse il diritto e la ragione; egli sdegnava e respingeva i frodatori e i barattatori. Nessuno ormai poteva più dubitare, nessuno poteva più temere.

Quella mano, tesa verso un poeta ancor caldo della battaglia combattuta, era già pronta a sguainare la spada. Per ciò la mia commozione fu tanto profonda.
Io non dimenticherò mai quell’ora meravigliosa accompagnata dal battito del più ferreo destino.
Egli era, come sempre, pacato. La sua voce era tranquilla e sicura. Il suo discorso era misurato e limpido. Ma egli portava già l’uniforme grigia dei generali in campagna, egli era già pronto a montare a cavallo.
L’esercito d’Italia era già tutto dietro di lui schierato; e mi pareva di udire, nelle pause, il ritmo lontano del passo innumerevole.

Si diceva che il Re avesse lungamente esitato, prima della deliberazione suprema. Ma, in verità, di tale esitanza non appariva segno.
Egli aveva il suo aspetto consueto, l’aspetto di colui che si propone di compiere il suo dovere fino all’ultimo, con tutta la sua coscienza, con tutte le sue forze.

Tale è il suo aspetto consueto. Non credo che abbia mai regnato al mondo un Re più costante e più fervido della religione del dovere. Non credo che mai Re abbia con tanta pertinacia esercitato il dovere verso il suo popolo, verso sé stesso e verso i suoi maggiori.

Ed ecco che si compie in lui la sentenza d’un nostro vecchio poeta del tempo di Dante, il quale dice:“Molte cose ha in balia chi vuol quel ch’è dovere”. Ciò è: chi ubbidisce al bene ch’è dovuto da lui, le cose a lui ubbidiscono.
Esercitando rigidamente e compiutamente il suo dovere, questo Re è riuscito a dominare il suo destino.
Ecco che a lui, dopo tanti anni di religiosa osservanza del suo compito, il destino ubbidisce. Ecco che, dopo tanti anni di abnegazione silenziosa, egli ha la più bella sorte.E della più bella sorte si mostra degno.

La sua assunzione al trono fu accompagnata da strordinarii segni. Quando la sera del 29 luglio 1900 il suo padre augusto – che non aveva mai fatto male a nessuno – cadde assassinato egli era in alto mare, navigava sul Mediterraneo. Su la nave ebbe l’annuncio funebre, su la nave divenne Re d’Italia. La nazione che trascinava la sua vita in una specie di servaggio, incatenata ai suoi alleati odiosi, ebbe sotto quel getto di sangue regale un fiero sussulto.
Le coscienze inerti si scossero. Le volontà giovanili, stanche della troppo lunga vergogna, ebbero un movimento d’insurrezione.
Quando il convoglio funebre, partitosi da Monza, attraversò l’Italia per fermarsi in Roma, un gran fremito lo accompagnò sino al Pantheon. Al passaggio, Genova, madre delle navi, gli mandò un saluto eroico, la Spezia, madre delle navi, lo salutò dai suoi forti e dalle sue torri corazzate.

Tutta Roma seguì con un maschio silenzio la spoglia composta sopra un affusto di cannone. Veramente l’Italia parve trasfigurarsi e rialzarsi armata di una volontà nuova.

Allora il Re “che assunto dalla Morte fu Re nel Mare” io dissi in un’ode che oggi risorge nello spirito degli Italiani rinnovellati: “T’elesse il Destino. Guai se tu gli manchi!”.
Una necessità eroica pareva splendere sopra il giovine Re. L’Ode lampeggiante di speranze e di presagi gli domandava: “Che vorrai tu sul tuo soglio? Quale altezza è il tuo segno? Miri tu lontano?”
L’Ode anelante gli domandava: “Sai tu come sia bello il tuo regno? Conosci tu le sue sorgenti innumerevoli? Ami tu il suo divino mare?”.
L’Ode imperiosa gli gridava: “Apri alla nostra virtù le porte dei dominii futuri!”.
Ma il risveglio dell’anima nazionale fu breve. Ricademmo nelle mani impure dei vecchi corruttori.

L’uomo che fu da me accusato e convinto di tradimento dinanzi al popolo, Giovanni Giolitti, nome oggi esecrando per tutti gli Italiani, corruppe ogni cosa, profanò ogni cosa, ridusse la vita pubblica a una miserabile competizione di piccoli interessi loschi, a un basso mercato.
Anni ed anni di fangosa oscurità passarono.
Ma il genio della stirpe non fu distrutto, le sorgenti profonde non furono essiccate. Una vita occulta travagliava la nazione, pur sotto l’obbrobrio cotidiano.

Un fondo inesauribile di forza creatrice, un nucleo di energie latenti era nella nostra terra. La nostra terra era pur tanto ricca da nutrire il germe della più alta speranza.
Misterioso e infallibile ritmo del destino. Tanta miseria, tanta vergogna, tanta angoscia, tanto travaglio si coronano di questo splendore trionfale!

All’improvviso, in un mattino di primavera sfolgorante, una voce grida, come nel poema della libertà: “My brethren, we are free!”
Siamo liberi, siamo pronti, siamo armati, siamo degni delle nostre sorti. Il Re eletto dal Destino, in un giorno di lutto, è esaltato dal Destino in un giorno di vittoria. Il presagio era giusto, l’invocazione era verace. “Dal sangue vermiglio
fa che nasca un’aurora!”.
Dal sangue vermiglio nascerà la più rossa aurora.
Ora ne siamo certi, per la nostra anima e per l’anima della stirpe.
E questo Re si mostra degno della sua fortuna. Il suo dovere, su la linea del fuoco, egli lo compie come può compierlo il discendente di Emanuele Filiberto e di quell’indomito Carlo Emanuele I il quale rimandò al Re di Spagna l’ordine del Toson d’oro con queste fiere parole:“Non voglio vincoli d’onore, da chi minaccia catene”.

Il Re d’Italia è coi suoi soldati, è di continuo alla fronte dove batte il flutto violento del più puro sangue nostro. Egli ha l’eroica gioia di sentire ogni giorno affluire la forza, il coraggio, la virtù del suo popolo intero, là dove il pericolo è più grande, là dove la prova è più dura.
Non teatrale imperatore di barbari, non capo di lanzichenecchi feroci, ma re latino, semplice, sereno, intrepido, egli è un’anima sola con l’anima dei suoi soldati.

L’altro giorno su la linea del fuoco, una granata scoppiò a pochi metri da lui. Egli si gettò a terra come i suoi soldati. Rimasto incolume, si levò sorridendo, coperto di quella terra che è già libera e che resterà per sempre nostra.
Tra il delirio delle truppe, gridò: “Viva l’Italia!”.
Questo grido noi lo ripeteremo fra poco, intorno al suo cavallo, nelle vie di Trieste. Ciascuno di noi, ciascuno dei nostri soldati confida di ripeterlo nelle vie di Vienna, passando dinanzi al monumento abbattuto di Tegentthoff.
“Viva l’Italia!”.

Per ciò, nel mattino di maggio, pei viali del parco silenzioso, il Re e il poeta parlano a voce bassa.
Essi udivano avvicinarsi dalle profondità incognite il ritmo del Destino, che superava il sogno della loro giovinezza e l’aspettazione della loro fede.

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