MONARCHIA E UNITA’

autore: 
Emilio Faldella

Pubblichiamo l’articolo sempre di grande attualità, dello storico Gen. Emilio Faldella apparso sul numero di dicembre 1961 del mensile “Critica Monarchica” che era diretto dall’amico Dr. Ing. Domenico Giglio.

Pubblichiamo l’articolo sempre di grande attualità, dello storico Gen. Emilio Faldella apparso sul numero di dicembre 1961 del mensile “Critica Monarchica” che era diretto dall’amico Dr. Ing.Domenico Giglio.


In occasione della celebrazione del Centenario 1860-1861 scrittori e conferenzieri hanno posto il loro maggior impegno a rappresentare la Monarchia Sabauda, il Regno Sardo e le sue Istituzioni quali elementi ritardatori dell’ “unità”, quando non addirittura avversari dell’unificazione.


Questa tendenziosità si era già rivelata nella stessa impostazione delle celebrazioni, allorché, invece di ricordare il centenario della “proclamazione del Regno”, si volle commemorare il centenario dell’ “Unità”, raggiunta, invece, nel 1870.

Questi adulteratori della storia, non si erano però accorti che, in netto contrasto con le loro intenzioni, celebrare nel 1961 il centenario dell’“Unità”., significava riconoscere implicitamente che proprio la proclamazione del Regno era stata, dal 1861, fattore essenziale ed insostituibile del processo di unificazione politica, ma soprattutto dell’unificazione spirituale.
La dimostrazione di questa verità scaturisce da poche constatazioni, riferite agli avvenimenti salienti del Risorgimento: il decennio 1849-1859; le annessioni; la campagna del 1860; la costituzione dell’Esercito Italiano.


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Nel decennio 1849-1859 l’ “unità” politica era un’utopia, che poteva essere oggetto di aspirazioni di filosofi; soltanto la “indipendenza” dallo straniero, e cioè la cacciata dell’Austria dalla penisola, appariva realizzabile, in un certo periodo di tempo e verificandosi favorevoli circostanze.
Non è possibile negare che al raggiungimento di questo obiettivo abbiano attivamente operato sia Vittorio Emanuele, sia il Governo Sardo e, in particolare il Conte di Cavour.


Si obietta: il Re era mosso da interesse dinastico, si atteneva alla linea direttrice della politica della Monarchia Sabauda, tendente all’espansione dei domini nell’Italia Settentrionale.
Ammettiamolo pure; è, però, ovvio che, attraverso questa ammissione, si dimostra che gli interessi e le aspirazioni della Casa di Savoia si identificavano con gli interessi e le aspirazioni degli Italiani che anelavano all’indipendenza dallo straniero.

C’è di più: quando ancora la unità politica era un’utopia, negli Stati Sardi si stavano già gettando le basi dell’unità spirituale e giuridica degli Italiani.
Infatti, nel decennio 1849-1859 il Regno Sardo rappresentò per i patrioti di ogni parte d’Italia il porto sicuro nel quale riparare, nel quale gli esuli - fossero monarchici o repubblicani - trovarono non soltanto asilo, ma campo aperto alle loro attività.
Italiani esuli dai loro paesi d’origine - per dire soltanto dei maggiori -furono accolti nell’Armata Sarda con gradi anche elevatissimi (i generali Cialdini, Cucchiari, Fanti, per esempio); altri divennero senatori e deputati, direttori di giornali, come il Massari, impiegati nelle pubbliche amministrazioni, professori nell’università.


I portici ed i caffè di Via Po, i salotti, le redazioni dei giornali, erano il “foro” nel quale l’idea dell’indipendenza era discussa propagandata, facendo della piccola Torino centro propulsore di un’azione per la quale gli Italiani di tutte le regioni si sentivano affratellati.


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Non certamente ai mazziniani, ma al Re Vittorio Emanuele ed al Governo Sardo, nella persona di Cavour, va il merito della politica abilissima che preparò, attraverso la campagna di Crimea, la campagna del 1859. Ricordiamo il proclama di Mazzini ai soldati piemontesi in partenza per la Crimea, per invitarli a disertare ed a ribellarsi.

La funzione direttrice e catalizzatrice degli Stati Sardi ebbe influenza ancora più decisiva dopo la delusione di Villafranca.
Chi avrebbe allora osato parlare di “unità”? Sembrava persino utopia sperare ancora nella totale cacciata dell’Austria dalla penisola.
Unica soluzione, per il momento, appariva l’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna e la ripartizione del rimanente d’Italia in un regno dell’Italia Centrale, voluto da Napoleone III, nel Regno delle Due Sicilie e negli Stati della Chiesa.


Mentre il Governo di Torino, con opera abilissima, cercava di evitare la reintegrazione dei sovrani spodestati nei Ducati e la restituzione della Romagna al Pontefice, la corrente rivoluzionaria sapeva soltanto creare nuove difficoltà, rivolgendo le proprie mire allo sviluppo di un’azione armata contro lo Stato Pontificio, rischiando di provocare l’intervento della Francia e la ripresa della guerra da parte dell’Austria, che aveva mantenuto un forte esercito nel Veneto.

Causa le mene dei rivoluzionari, incombeva sul Governo di Torino lo spettro di una seconda Novara che avrebbe fatto perdere tutti i vantaggi conseguiti con la campagna del 1859.

Chi mai avrebbe potuto, in otto mesi, fare dei preliminari di Villafranca, qualificati “maledetti” anche dal Cavour, i “benedetti” preliminari di Villafranca, rovesciare la situazione, giungere all’annessione dell’Italia Centrale e delle Romagne, se non il Governo di Vittorio Emanuele II, di quel Re che, proprio quando maggiore era stato lo smarrimento, aveva intuito grandi vantaggi che sarebbe stato possibile trarre dall’armistizio, ed aveva con la sua fede indirizzato il Governo sulla giusta via?

Da poche settimane era stato risolto il problema delle annessioni, col sacrificio di Savoia e di Nizza, prezzo pagato per tacitare Napoleone III, quando la Spedizione dei Mille suscitava una tempesta diplomatica.


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I rivoluzionari accusarono allora Cavour di aver osteggiato la spedizione garibaldina e di essersene poi subdolamente servito per soddisfare interessi dinastici e, naturalmente, cento anni dopo le accuse sono state riprese e sviluppate, per cui Vittorio Emanuele II e il Conte di Cavour sono stati presentati come cinici sfruttatori della generosità garibaldina.



Per esprimere un giudizio sereno, bisogna tener presente che se il Regno di Sardegna aveva potuto farsi campione dell’Indipendenza dal dominio straniero, riscuotendo simpatie in Francia ed in Inghilterra, non poteva altrettanto apertamente farsi campione dell’Unità, poiché la realizzazione dell’unità implicava l’eliminazione di Stati, quali il Regno delle Due Sicilie e lo Stato Pontificio, e perciò urtava contro il principio della legittimità, che tutte le monarchie europee avevano sommo interesse a non lasciar intaccare.

Il Governo di Torino non poteva pensare di dichiarare guerra al Re di Napoli ed al Papa; avrebbe potuto, tutt’al più, intervenire, quando si fosse manifestata la necessità di “frenare” la rivoluzione, sperando di avere, per questa funzione, la tolleranza dell’Europa.
Perciò la rivoluzione nell’Italia Meridionale era nei piani di Cavour, purchè scoppiasse al momento opportuno e, nell’aprile-maggio 1860, il momento non gli sembrava - ed effettivamente non era - opportuno.

Non esisteva quindi, fra il Conte e la corrente rivoluzionaria un contrasto di fondo; il contrasto era limitato alla scelta del momento, Cavour desiderava soltanto avere a disposizione il tempo necessario per creare condizioni favorevoli nel campo diplomatico e, intanto organizzare l’amministrazione delle province allora annesse e, soprattutto, condurre fino ad un punto soddisfacente l’immane opera iniziata soltanto sei mesi prima per triplicare la forza dell’Esercito, onde essere in grado di fronteggiare un’eventuale - e tutt’altro che improbabile - ripresa della guerra da parte dell’Austria.
Dovette abbandonare scrupoli e timori, di fronte all’atteggiamento assunto dal Re Vittorio Emanuele che, spinto dal suo spirito battagliero, voleva “lasciar fare” a Garibaldi.



E’ assurdo sostenere che Cavour abbia avversato la Spedizione dei Mille; si dica piuttosto che l’ha tollerata. Ma come avrebbero potuto i Garibaldini raccogliersi in Genova sotto gli occhi delle autorità compiacenti, impadronirsi delle navi, salpare, giungere a Marsala, se Cavour avesse voluto impedirlo?

Egli chiuse gli occhi, fornì i mille fucili, inviò la Squadra Sarda da Livorno - dove avrebbe potuto agevolmente intercettare i due piroscafi garibaldini - a Cagliari, ben lontano dalla rotta che Garibaldi avrebbe seguito e, non appena avvenuto lo sbarco in Sicilia, lasciò Medici e Bertani liberi di arruolare volontari, imbarcarli e trasportarli a migliaia e migliaia in Sicilia.
E’ vero: Cavour si è servito della Rivoluzione per “fare l’Italia” con la Monarchia di Savoia. Però è anche vero che senza il prestigio della Monarchia e senza la “copertura” assicurata nel campo diplomatico dal Governo del Regno di Sardegna, nessuno avrebbe impedito interventi armati che avrebbero stroncato la campagna di Garibaldi. Soltanto il Governo Sardo, che offriva serie garanzie agli Stati europei che la "rivoluzione” non avrebbe avuto sviluppi pericolosi contro gli Stati della Chiesa, poteva evitare che Francia ed Austria intervenissero con le armi.

La tempesta suscitata dalla spedizione garibaldina si scatenò contro il Re e Cavour, qualificati da tutta Europa “filibustieri”; ambedue l’affrontarono con spregiudicata fiducia e rara abilità, coprendo le spalle a Garibaldi.
Poi - si sostiene - quando la Rivoluzione aveva vinto, la Monarchia si appropriò del regno conquistato e nemmeno fu riconoscente a Garibaldi ed ai suoi.

Ma era poi davvero “conquistato” il Regno di Napoli?

La battaglia del Volturno fu il canto del cigno dell’esercito dei volontari; smisuratamente ingrandito, aveva perduto in efficienza e si trovava di fronte l’esercito borbonico riordinato, che occupava piazze - Capua e Gaeta - che i Garibaldini non avrebbero mai potuto conquistare, mancando dei mezzi di assedio necessari.
Se la flotta francese impedì all’Armata Sarda di bloccare Gaeta, a maggior ragione lo avrebbe impedito a Garibaldi.

Le sorti del “conquistato regno” erano sospese ad un filo, filo che avrebbe dovuto reggere molto a lungo, filo corroso dai movimenti popolari legittimisti, già degeneranti nel brigantaggio, filo che le potenze europee avrebbero potuto recidere facilmente, se lo avessero voluto.
L’Europa poteva accettare il “fatto compiuto” soltanto se il Regno di Sardegna si rendeva garante dell’ordine; non avrebbe mai tollerato che l’Italia Meridionale diventasse focolaio di velleità rivoluzionarie.
Se l’Armata Sarda non fosse intervenuta, se il Governo di Torino non avesse preso in mano la situazione, lungi dal fare un passo innanzi verso l’“unità”, si sarebbe spezzata anche l’unità dell’Italia Meridionale, poiché già si voleva una repubblica in Sicilia ed una repubblica a Napoli.



Il Governo di Torino, funzionari inviati nelle province appena annesse, commisero errori, volendo estendere a tutta la penisola sistemi che andavano bene nelle province del Regno Sardo, ma che non erano facilmente accettabili da popolazioni in grande maggioranza misere, e che però non conoscevano tasse, obblighi di sevizio militare, giustizia imparziale e severa.
Gli errori non annullano l’importanza del fatto essenziale: soltanto l’annessione al Regno Sardo e la successiva trasformazione di questo in Regno di Italia, potè consolidare e rendere duratura la vittoria della rivoluzione.

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Di pari passo con l’azione politica che, dall’aprile 1859 alla primavera del 1861, in meno di due anni, trasformava uno Stato di cinque milioni di abitanti in uno di oltre venti milioni, si svolgeva l’organizzazione di quello che, il 4 maggio 1861 sarebbe diventato Esercito Italiano.
In meno di due anni le cinque divisioni dell’Armata Sarda diventarono dieci e, nell’anno successivo, venti, incorporando uomini di tutta la penisola, ufficiali provenienti da tutti gli eserciti disciolti.

Dai 2500 ufficiali mobilitati con l’Armata Sarda nel 1859, si giunse nel 1862 a 15.000 ufficiali, incorporando, fra gli altri circa 1.500 lombardi; 1300 dell’Italia Centrale, altrettanti dell’Esercito delle Due Sicilie; 2.000 ufficiali garibaldini.
E da questi ultimi, tutti repubblicani di sentimenti, provvenero i nostri generali che divennero fedelissimi servitori della Monarchia: dal Bixio al Medici, al Sirtori al Cosenz, che fu il
preclaro capo di stato maggiore dell’Esercito. Questo “amalgama”, mediante il quale, pur superando gravissime difficoltà e malgrado seri inconvenienti, fu costituito quell’esercito che il Settembrini definì “il fil di ferro che ha cucito insieme l’Italia e la mantiene unita”, non è un “miracolo”.



Fu il risultato di un’azione ispirata dalla Monarchia che rimanendo al di sopra di divergenze di opinioni, ispirò in tutti tale fiducia e devozione, di poter assolvere una preziosissima funzione unificatrice.
Tanta fu la forza spirituale che essa irradiò, che fece dei più accesi repubblicani i fedeli del Re.

Né va dimenticato l’apporto che alla creazione del grande Esercito diede l’Armata Sarda col prestigio, gli ordinamenti, la scrupolosa amministrazione, la solidità e la fedeltà dei quadri e della truppa.
Sarebbe certamente stato preferibile che l’incontro di Teano fosse stato più calorosamente cordiale, che fra i seguiti del Re e del Condottiero fosse regnato maggior cameratismo, che l’assorbimento dei volontari fosse stato effettuato con maggior generosità.


E’ però il che le reciproche incomprensioni fra Esercito regolare e corpi volontari erano giustificate da circostanze che, allora, apparivano più gravi quanto ci appaiano ora.
I volontari, da parte loro, non agevolarono fusione, pretendendo lungo tempo di costituire un esercito a sé, distinto da quello regolare, che era assurdo in Stato unitario.

Questo prova quanto poco unitario” fosse lo spirito animava gli uomini della “rivoluzione” e di conseguenza, quanto provvidenziale sia l’azione svolta dal Governo Sardo per superare esclusivismi e personalismi, divergenze tendenze e di opinioni, che avrebbero ostacolato se non impedito lungo tempo il compimento del processo unitario.

Checché dicano e scrivano gli storici che, per giustificare la Repubblica, hanno bisogno di negare anche i meriti che la Monarchia ha acquisito durante il Risorgimento, affermiamo che senza la Monarchia Sabauda il cosiddetto “miracolo” dell’“unità”, realizzato in soli due anni sarebbe rimasto a lungo un’utopia di filosofi e di pensatori.

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