LE RAGIONI DI UNA PROTESTA

autore: 
Riccardo Pratesi

In un freddo pomeriggio d’autunno anche a Pisa, epicentro principe di ogni rivolta studentesca che si rispetti, la protesta sembra assopita.

Nelle settimane scorse il campo di battaglia è stato l’intera città, letteralmente presa d’assedio e paralizzata nei suoi punti chiave: i ponti, la stazione, l’autostrada, persino l’aeroporto “Galilei”, uno degli scali aerei più importanti dell’Italia centrale.

Gli studenti non hanno lasciato niente al caso, come in una vera guerra tutto (o quasi) è stato pianificato e preparato con cura, ed il grido di diecimila giovani (pari a poco meno di un quinto dell’intero Ateneo) si è levato dai lungarni fino a salire sul Campanile di Santa Maria, la torre pendente celebre in tutto il mondo.

Come in una vera guerra non sono stati risparmiati i civili: molti sono stati i disagi di chi si muoveva in auto o in treno per andare o tornare dal lavoro, raggiungere gli amici o magari - come purtroppo è accaduto - prestare soccorso ad anziani parenti in difficoltà.

Ma si sa, in guerra tutto è permesso.
Parlo di “guerra” perché in tali avvenimenti ravviso molto più questo concetto che quello di “sciopero” o di “manifestazione”.
Il primo, infatti, trova la sua peculiarità nel bloccare un’attività (inizialmente erano le industrie) per danneggiarne il datore di lavoro, mentre la seconda fattispecie, come dice appunto il nome, non dovrebbe avere altro obiettivo se non quello di manifestare, senza che questo debba comportare danni ai terzi.
La contestazione in atto mi sembra esuli da entrambe le condizioni necessarie sopra elencate.
Ma il problema, nel nostro caso, non è soltanto quello della modalità; il problema vero, quello che da studente all’ultimo anno della laurea specialistica mi pongo, sono i motivi della protesta.

Quel che si evince decifrando gli slogan dei cortei è che la cosiddetta “riforma” presentata in due parti dal tandem Gelmini-Tremonti sembri fatta apposta per affossare l’università italiana, privatizzarla e darla in pasto ai baroni, polverizzarne il diritto allo studio ed impoverirla anche dal punto di vista materiale, tagliando a tutto spiano sul fondo ordinario.
Tutto questo mi lascia basito, come mi lasciava basito due anni fa, quando la questione esplose sul DDL 133.
Mi lascia basito perché la mia esperienza mi insegna che tutte queste catastrofi sono già parte dell’università, da anni.

Da anni, infatti, l’università italiana non fa altro che scendere nelle classifiche mondiali, disperdendo il proprio prestigio secolare in centinaia di corsi e facoltà, spesso create ex novo per soddisfare gli appetiti di qualche amico-di-amici.
Da anni il diritto allo studio è sempre meno garantito, con tasse che aumentano esponenzialmente ad ogni nuovo ciclo.



Da anni nell’università la presenza del privato è sempre più prepotente: che cos’altro rappresentano, infatti, i famosi e costosissimi master?
Inoltre, anche il dibattito sui tagli mi lascia spesso perplesso: trascurando il fatto che capita ancora di sentire citare le previsioni di bilancio della legge finanziaria 2008 (ma nel frattempo si è smesso di vararne?), mi chiedo se qualcuno si sia mai fatto una vaga idea di che razza di buco nero siano le Università italiane.

Grazie alla celebre riforma del Titolo V della
Costituzione, le Università sono diventate enti semiautonomi, delle specie di aziende mostro, autonome in quasi tutto, tranne per il fatto che nonostante possano ritrovarsi con dei conti vergognosamente in rosso, esse non possono fallire.
La conseguenza più ovvia è la dissipazione colossale di soldi pubblici, che finiscono nelle fauci delle università e spariscono bruciati in edilizia spericolata, capricci di architetti e sprechi di vario altro tipo.


La verità è che il declino dell’università italiana ha origini ben più lontane nel tempo.
È iniziato quando si sono svalutate all’inverosimile le lauree, creando il famigerato 3+2; quando non si è vigilato abbastanza sui meccanismi che hanno trasformato ogni commissione d’esame per dottorato (e non solo) in una completa farsa; quando si è abbandonata talmente tanto a sé stessa la scuola secondaria da permettere, ad esempio, che più della metà degli iscritti alla facoltà di Lettere e Filosofia di Pisa bocciassero quest’anno il test di autovalutazione perché non riescono a comprendere un testo scritto e non sanno l’italiano.

Chiariamoci: questa non è una bella riforma. È una riforma che risolve poco o nulla dei problemi esistenti nell’intricato tessuto dell’istruzione universitaria italiana, addirittura aggravando la situazione in molti casi.
Ma il punto è che la protesta rischia di fare molto peggio, coprendo i veri guai, proteggendo i veri responsabili e facendo il loro gioco.


Ci vorrebbe meno ipocrisia, bisognerebbe rendersi conto delle gravissime condizioni in cui versano i nostri atenei da tempo, e spesso mettere una mano anche sulla nostra coscienza di studenti fuoricorso o colpevolmente ignoranti, ribellarci contro un sistema che sta peggiorando da anni, e non per colpa di una riforma che arriva dal nulla a spezzare un idillio che non esiste.

Tanto per riprendere uno degli slogan così in voga di questi tempi, il mio futuro non è stato rubato ora.
Il mio futuro è stato rubato quando si è colpevolmente permesso che la meritocrazia sparisse dietro al clientelismo, dietro le commissioni che programmano i dottorati secondo i gusti e gli interessi dei professori più influenti, che di volta in volta hanno già deciso quali dei loro pupilli promuovere.


Sapevo che il mio futuro sarebbe stato compromesso quando non sono stato “abbastanza furbo” da scegliermi un relatore che avrebbe saputo darmi la spinta giusta al momento giusto.
Chi contesta oggi lo fa molto “contro” e quasi nulla “per” qualcosa.

Non sono a priori contro la protesta, ma lo sono contro una protesta cieca e conservatrice, che si bendi gli occhi tutto l’anno per svegliarsi solo quando qualcuno vuole dare un altro colpo ad un sistema incancrenito e putrescente da tempo.

Dove sono stati fino ad ora quelli che oggi fanno sventolare gli striscioni ed urlano i loro slogan?
In che mondo sono vissuti? Perché non siamo saliti su qualche torre o qualche tetto ogni volta che la nostra università giocava a fare l’agenzia immobiliare coi preziosi soldi che ora sembra che manchino così tanto?

Perché non siamo saliti a sventolare qualche striscione ogni volta che uno studente meritevole veniva escluso da un concorso solo perché aveva pochi agganci?

Perché abbiamo taciuto ogni volta che il solito barone con quattro o cinque cattedre ha marinato sistematicamente ogni suo insegnamento affidandolo ai propri assistenti (ma continuando a percepire l’intero stipendio)?
Si potrebbe andare avanti a lungo.

Ci tengo anch’io al mio domani, probabilmente più di tanti capipopolo fuori tempo massimo coi loro studi, ma finché le contestazioni continueranno ad essere strumentali e strumentalizzate, mai sistematiche, conservatrici di uno status quo indecente, retoriche e demagogiche, potete considerarmi fuori.

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